WORKS
Cruore
Galleria de Crescenzo e Viesti – 2007
Jacopo Ortis. Mai letto; mai sfogliato, mai, neppure, subìto. E non lo dico con orgoglio. Lo dico come un dato di fatto, un’occasione della vita. Mancata. Un dato, un soffio, una fortuna. Cos’è allora per me ‘sto Jacopo Ortis? Forse un suono, un suono semplice della letteratura, meglio, un nome e un cognome nel tunnel del vento dei classici. Un nome fiorito, forse perfino dolente, troppo. Già, cosa c’è di più fiorito e luttuoso di chiamarsi Jacopo? Un nome che mostra la stessa forma di una campanula, di una prece. Quanto invece a Ortis, mostra la voce, se così posso dire, filatelica delle emissioni Ruota alata del dopoguerra, la serie de L’Italia al lavoro, con le sue campane, i rovi, i grembiuli dei fabbri, i berretti dei muratori, l’Italia laboriosa, ferma nel tepore mortuario conquistato nelle campagne risorgimentali, rondini, saio, chiodi, scodella, fucile, pugnale, letto di morte, e poi soprattutto i colori, proprio il viraggio dei francobolli, lacca rosso, verde oliva, sì, pensandoci bene, Jacopo Ortis ha dalla sua le tinte delle terre, e non una goccia di rosso, e questo nonostante il carattere ultimativo, le ultime lettere, appunto. Di Jacopo Ortis, ora che ci penso, qualcosa ricordo, cose rimaste nei neuroni dal tempo coatto di scuola, ricordo per l’esattezza una battuta che riguardava semmai le buste, già, le ultime sue buste, quelle di Jacopo Ortis, una battuta che appassionava molto i drogati, i migliori tossici, dove busta era sinonimo di eroina, dunque, seppure nell’apparente sbraco, il senso ultimo della storia doveva essere chiaro anche ai goliardi, a quelli cui Ortis mai pervenuto. Quanto all’autore, ricordo bene se dico che si trattava di Ugo Foscolo? Sono insomma uno scrittore vergine, un vergine martire della scuola e della storia. Ortis, nel suo sconforto dinanzi a una nazione straziata, e tuttavia ancora a venire, germinale, sarebbe comunque orgoglioso di me, di noi che ci salvammo dal suo tormento.
Fulvio Abbate